Fan Page Ufficiale di Imogen Barnabas. Autrice di performance, spettacoli teatrali approfondisce i temi dell'eterno femminino e ne rappresenta a pieno la potenza nei suoi romanzi. Pubblicato in Italia: Veleno e Pozioni d'Amore.




La Provenza: le sue erbe e i venti carichi di profumi. E un paio di uomini irresistibili: un enorme poliziotto nero e il suo aiutante faccia da schiaffi.
Niente di meglio per Lyssa, sibillina maestra di erbe e pozioni, e Dominique, riccioli dorati e alluci vanitosi. Niente di meglio se non fosse per i troppi cretini nella loro vita e il sospetto che dopo la trentina le donne perdano ragion d’essere. E se non fosse per “il killer dei fiumi” che va seminando cadaveri dalla Costa Azzurra a Lione.
Dominique e Lyssa mettono in moto una screwball comedy in cui si fondono amore e umorismo: la stessa tenera ironia che a ben vedere è il sale del rapporto tra femminilità e virilità anche nella vita.
Se in Arsenico e vecchi merletti Kesselring e Capra si interrogavano sulla reale innocenza della società vittoriana, Imogen Barnabas accende i riflettori sugli aspetti letali della cosiddetta fragilità femminile. Un intrigo deliziosamente criminale. Una favola comica, peccaminosa, romantica e macabra. Premio Gusti tra le Righe 2014 (Cover di Alice Chiavazza di Caffeina Design)

domenica 14 dicembre 2014

Da Veleno e Pozioni d'Amore - Primo Capitolo

1. Un iPhone penultimo modello

Dominique parcheggiò davanti all’autogrill. C’era un posto disponibile, lungo e stretto, era proprio accanto a un carro da morto. Ci si infilò, non vedeva l’ora di volare tra le braccia di Uppert e sorrise allo specchietto laterale. Già che c’era estroflesse le labbra carminio. Poi, nel riquadro dello specchietto, comparve una croce nera.
Era applicata su un montante del retrotreno. Distolse lo sguardo ma fu solo per posarlo su un’altra croce dorata che svettava davanti, sul muso del feretro, sopra il cofano. Spense il motore e puntò lo sguardo verso la porta a vetri dell’autogrill.
Aveva fretta e sarebbe sgusciata molto rapidamente tra le vetture, se non avesse dovuto appiattirsi con la schiena contro la propria auto, cercando di non sfiorarla per non sporcare la leggera gonna svolazzante a pois. Fu così che notò il proprio riflesso nella vetratura addobbata dell’auto funebre.
Tra il festone in alto e un nastro di velluto setoso viola a pieghette regolari sotto, si delineava una starlett dal seno rotondo ben sottolineato dal copricuore rosso. Non troppo ben sistemato, notò Dominique con disappunto. Si protese verso il vetro riflettente per raddrizzare la scollatura: fu allora che lo sguardo si insinuò casualmente in uno spiraglio laterale tra la tenda e il montante.
Nell’abitacolo filtrava un raggio di sole, scintillava sul coperchio della cassa di legno scuro, ne definiva i profili torniti e gocciolava su qualcosa di più chiaro. Dominique socchiuse gli occhi: era l’interno della bara.
Con il movimento, il coperchio doveva essersi spostato. Si vedeva chiaramente l’imbottitura di raso celeste.
E una faccia.
Strabuzzò gli occhi.
Sì, era una faccia, un viso azzurrognolo dagli occhi cerchiati di viola. Il tizio doveva essere morto al mare. Affiorava il colletto slacciato e la parte alta di una camicia a fiori, come quelle hawayane da spiaggia che andavano di moda negli anni ‘80. Era un morto abbronzato; quello strano colore del viso doveva essere il risultato del connubio tra la tintarella e il pallore cadaverico. Curioso.
Dominique aveva sempre creduto che gli addetti alle pompe funebri truccassero un po’ i morti, prima di seppellirli. Quello era anche tutto spettinato e aveva una macchia scura sulla bocca. Avrebbe detto che fosse sangue ma era certa che era impossibile in una salma già composta nella bara.
Si raddrizzò e si guardò intorno in cerca dell’autista ma non vide altro che la tazza di caffè lampeggiare sull’insegna del punto ristoro.
Spinse sul maniglione e respirò a pieni polmoni l’aroma del caffè diffuso da una piacevole brezza fredda. Nella Deux Chevaux d’epoca l’aria condizionata non era contemplata, così Dominique si dispose ad approfittare della lunga coda alla cassa per godere di un po’ di fresco quando la voce professionale e urgente del telegiornale le fece alzare lo sguardo.
“Il Mostro dei Fiumi torna a colpire. Ritrovati altri due corpi sulle sponde della Loira, in prossimità di Rohanne. Arrivano così a dodici le vittime del killer seriale, tutti facoltosi uomini di successo i cui cadaveri sono stati abbandonati e in seguito rinvenuti in aree fluviali.”
Lo schermo dietro la cassa saltò su un telefilm.

«Certi crimini sembrano proprio una forma di giustizia divina. I ricchi, crisi o non crisi, restano sempre in piedi,» osservò il banconista armeggiando con il telecomando. «Chi devo servire?» Dominique alzò timidamente la mano come a scuola, ma una ventenne in forma smagliante la superò.
Era una bionda appariscente, intenta a digitare messaggi su un iPhone 5 con cover di strass che le passò davanti senza nemmeno vederla.
Dominique si scusò per essersi fatta urtare, poi cominciò ad appoggiare sul banco due cioccolatini e approfittò dell’attesa per ricontrollare la propria immagine nello specchio dell’espositore per occhiali. Quando finalmente posò sette euro sul piatto poggia‑monete, aveva deciso che non troppo in là nel tempo si sarebbe fatta dare un ritocchino; ormai bastava un niente per appesantirle l’espressione.
A volte le sembrava di essere come un iphone non più d’ultimo modello, buono ormai solo per fare confronti con le nuove superdotazioni. Sorrise dolcemente allo specchio: nonostante tutto, però, Uppert c’era e aveva scelto lei.
Uppert e quegli gli occhi colore del mare, capaci di evocare tutta la profondità della disperazione di un bimbo quando si accorge di essersi messo in una storia troppo grande e troppo sbagliata per lui. Sì, Uppert che la guardava ogni volta così; e a quel tormento tanto azzurro Dominique proprio non sapeva resistere.
«Signora...?» disse gentilmente il cassiere. Anzi, per la verità lo ripeté.
Dominique si voltò a guardarlo.
Si chiamava così perché era nata nel “giorno del Signore” e sua madre, di origine italiana e cattolica convinta, aveva deciso di ricordare ad perpetuum questo dettaglio della sua vita, coniugando il suo nome con quello della domenica. Senza rendersi conto che, in questo modo, aveva impresso nella sua vita due caratteristiche che non l’avrebbero mai più abbandonata. La prima era che la figlia, effervescente come un’aspirina, sarebbe sempre stata estremamente riluttante a onorare e obbedire a qualunque “signore” - appartenente all’Empireo o più terreno - che cercasse di imporle un qualsiasi tipo di regola; la seconda era che Dominique, evanescente come la polvere delle ali di una farfalla o come lo chiffon di una sottana - avrebbe sempre gradito attribuire a se stessa quel titolo “signora”. Se lo meritava: poche donne avevano la sua grazia e quel buon gusto nel muoversi attraverso le difficoltà di una vita carogna. Anche se sembrava non rendersene conto troppo spesso, specie negli ultimi tempi. E poche donne erano dotate della sua generosa, coinvolgente e colorata pazzia. Quel giorno più che mai.
Sorpresa e un po’ imbarazzata, come se il cassiere avesse avuto la magica capacità di leggerle nel pensiero, arrossì leggermente e sorrise all’addetto che la fissava dall’altra parte della cassa:
«Un caffè freddo e questi...» disse indicando i cioccolatini.
«Ecco... » L’uomo consegnò lo scontrino, sorridendo con un’aria che a Dominique parve comprensiva.
Radunò i cioccolatini e andò al banco bar dove consumò la bevanda ghiacciata in pochi sorsi. In capo a un quarto d’ora si lasciò alle spalle l’odore di brioche e caffè dell’autogrill, salì in auto e si diresse ai distributori. E con suo enorme disappunto vide che non c’era il personale addetto alle pompe.
«Oh, no!» sbottò, inchiodando.
Il carro funebre grigio metallizzato inchiodò a sua volta dietro di lei e qualcuno alle sue spalle si attaccò con ostinazione a un nervosissimo clacson; Dominique guardò nello specchietto retrovisore e accennò un rapido gesto di scusa con la mano; aveva intenzione di scusarsi meglio, naturalmente, come ogni vera signora; ma adesso doveva risolvere un problema assai più grave: non era mai stata capace di fare il pieno da sola.
«Calma, Dominique, calma, – si disse, – in un modo o nell’altro ne verremo fuori.»
Accostò dolcemente vicino agli erogatori, tenendo d’occhio il carro da morto che la seguiva a ruota. Spense il motore e aprì lo sportello, poi fece uscire la prima delle sue affusolate gambe in calza velata su Chanel con tacco rosso pompiere – i sandali preferiti di Uppert –, si sporse e sorrise all’autista del feretro.
Un sorriso candido e irresistibile. Il sorriso più ingenuo e simpatico del mondo. Solo le bambine sanno sorridere così.
L’uomo aprì a sua volta lo sportello e uscì dall’auto, ricambiando, sorpreso e appoggiandosi al tettuccio. Dominique fece per dirigersi verso di lui ma l’uomo le indicò l’auto:
«La borsetta, signora... Meglio non lasciarla incustodita.»
Lei sorrise, rientrò nell’abitacolo lasciando che l’orlo svolazzante della gonna di seta si sollevasse capriccioso sui polpacci e ne uscì con la borsa, per dirigersi a passettini rapidissimi verso colui che nella sua mente era già diventato un salvatore.
Carro da morto, visibilmente stanco, visibilmente nervoso e visibilmente di mezza età, si tolse gli occhiali da sole e si tamponò la fronte con un fazzolettino di carta apparso dal nulla, così giallo e macchiato che avrebbe potuto benissimo essere quel che rimaneva del cartoccio di una frittella.
Dominique sorvolò sul senso di repulsione alla vista del fazzolettino e della camicia non proprio freschissima dell’uomo. Da qualche parte in fondo alla mente, passò la consapevolezza su chi potesse essere il tizio, evidentemente il proprietario di una piccola ditta di pompe funebri che aveva viaggiato senza dormire né farsi una doccia; ma tutto questo, nell’imminenza, non aveva alcuna importanza.
Dominique era senza benzina, aveva già perso parecchi minuti preziosi nel Duty Free Area e adesso aveva fretta. Così, valutando in un batter d’occhi la direzione del vento e giudicandola favorevole, gli si avvicinò abbastanza perché lui sentisse la fragranza del suo olio essenziale di rosa, mantenendo tuttavia una distanza di sicurezza sufficiente a non sentirsi infastidita dalla sua traspirazione. Poi sgranò su di lui il paio di turchesi che aveva al posto degli occhi, dono del nonno paterno, e sbatté le ciglia vellutate di mascara marrone a mo’ di ala di farfalla.
Un inatteso flap flap colse carro funebre che si sentì improvvisamente più allegro, meno stanco, meno nervoso. Ma senza dubbio un pochino più sudato.
«Mi scusi per prima, io sono davvero così imbranata ... ma provo un forte imbarazzo, quando vedo un distributore senza personale addetto. Mi fa lo stesso effetto che mi farebbe vedere un uomo tutto nudo con i calzini.» Dominique scoppiò a ridere e il becchino stanco sudato che aveva viaggiato troppo non poté trattenere a sua volta una risata. «Ecco, disse, si fa così» e cominciò a illustrare con fare esperto e sicuro la procedura di auto rifornimento, senza perdere d’occhio nemmeno per un istante il contatore della benzina, la propria vettura e i sandali di lei. Che sorrideva estasiata al pensiero della benzina che sgorgava nel suo serbatoio.
«Io davvero non so come sia possibile. Devo confessarle una cosa.»
Lui la guardò negli occhi.
«La verità è che i distributori non mi imbarazzano.»
L’uomo scese con lo sguardo alla scollatura della camicetta di velo rosso, sotto il copricuore in tinta. Ricominciò di colpo a sudare. Dominique, invece, continuava a sorridere:
«Perché la verità è che mi terrorizzano proprio!» poi scoppiò di nuovo a ridere, e anche lui. Intanto Dominique cercò di ignorare la puzza di benzina sperando che non si impregnasse nella seta della gonna. Si mosse rapidamente da una parte all’altra, allungando il collo per seguire le spiegazioni di quel signore, spiegazioni tanto gentili quanto del tutto inutili.
«Lei non ha idea di quante volte mi abbiano detto come si fa ma non riesco proprio a farmelo entrare in testa,» e scosse il caschetto di riccioli biondi, che si mossero armoniosamente tutti insieme come violini di un’orchestra.
«Semplicemente, quando vedo un distributore senza l’omino, mi paralizzo. Ecco. Mi paralizzo proprio. » E gli piantò di nuovo addosso i turchesi. L’uomo, riconfermato nella propria virilità, incastrò con un secco colpo deciso la pompa nell’apposito sostegno e le sorrise. Sentendosi irresistibile, e pensando alla prossima mossa, che sarebbe stata...
«Non so proprio come ringraziarla» cinguettò lei. «Anzi lo so! – Esultò imprimendo un paio di colpi di sopracciglia verso il cielo. – Per sdebitarmi la avverto: deve chiudere meglio la bara all’interno perché il coperchio si è spostato e si vede il morto!» aggiunse con tanto d’occhi.
Lui fece per aprire bocca; Dominique sbatté le ciglia un paio di volte, rinnovò un sorriso smagliante e poi:
«Uh!» strillò «Ma è tardissimo!»
Lanciò un paio di sguardi intorno, improvvisamente angosciata.
«Arriverò in tempo...? Mi aspettano! Devo scappare!»
Era già in auto.
«Grazie! Lei mi ha davvero salvato la vita!» gridò chiudendo lo sportello dell’auto. «Non la dimenticherò mai!»
Diede una rapida occhiata nello specchietto retrovisore, senza riuscire a dare un significato all’espressione delusa e improvvisamente moscia del suo eroe, che rimase sullo sfondo di quella meravigliosa mattina con le braccia penzolanti in maniera desolata. E con qualcos’altro che penzolava dalle sue mani, Dominique non ebbe tempo di capire esattamente cosa fosse.
Accelerò decisa a immettersi nell’autostrada: verso Uppert, ossia verso il suo personale paradiso.
Era la seconda volta che percorreva quei 283 chilometri per vederlo. 283 chilometri verso sud, e poi ritorno. Uppert non era esattamente dietro l’angolo, ma questo era un dettaglio irrilevante. I suoi occhi malinconici e maliziosi allo stesso tempo, la sua mascella così perfetta e quel suo naso “americano” l’avevano fatta impazzire. Si erano conosciuti in chat, proprio come in una favola, e lei aveva saputo subito di amarlo. Ci sono quelle situazioni in cui le cose si sanno e basta: ecco, con Uppert era proprio una di quelle.
Lasciando l’area di servizio selezionò una play list sul’iPod e pigiò il rewind su It’s a hard life: quella canzone era proprio adatta a lei e alla sua vita di eterna innamorata, convinta che l’amore potesse essere l’unico balsamo, l’unica panacea ad ogni problema della vita.
Chissà cos’era successo, poi, con gli altri. Qualche volta aveva iniziato a chiederselo, senza tuttavia darsi mai una risposta, perché si era sempre distratta prima di arrivare a sviscerare bene come fossero andate le cose. Del resto, adesso che c’era Uppert non valeva neppure la pena di scoprirlo. Sembrava proprio che le parole del caro, buon vecchio Freddie fossero profetiche: “Adesso sto spettando qualcosa che cada dal cielo, sto aspettando l’amore”.

“E speriamo che cada proprio questo, stavolta, non una frana o una grandinata come al solito”, pensò Dominique, sintonizzandosi sul battito irregolare e rapidissimo del proprio cuore.
Dove sarebbero andati insieme, si chiese, pregustando l’incontro. Stavolta lui avrebbe voluto fare l’amore. L’avrebbe portata a casa sua, magari sua moglie era via, fuori per lavoro. O forse in studio? Il sancta sanctorum di ogni regista? Sì, lei voleva farlo lì. Se lui glielo avesse chiesto, se le avesse lasciato scegliere il posto, sarebbe stato lì che gli avrebbe detto di andare. Voleva fare l’amore con lui per terra, ai piedi della sua cinepresa. Un ovvio tributo all’Arte e alle sue divinità.
In quel momento squillò lo smartphone. Era Uppert. “Telepatico”, pensò sorridendo, e rispose mettendolo in viva voce.
«Ciao stellina,» disse la bella voce d’argento dall’altra parte di chissà dove.
Come sempre quando lo sentiva dire “stellina” perse letteralmente l’uso della ragione e si sciolse come un gelato sull’asfalto di Ferragosto. Cominciò a balbettare come un’adolescente e rise. Rise, sì, di euforia e di gioia.
«Ciao, Uppert,» riuscì a rispondere infine e udì dall’altra parte l’eco della sua voce. «Ma dove sei?»
Uppert aveva una voce così dolce che sembrava sempre che parlasse sorridendo.
«C’è un problema, stellina. Un imprevisto, dobbiamo rimandare il nostro appuntamento di oggi.»
Dominique sorrise nervosa, sentendo improvvisamente freddo:
«Stai scherzando,» azzardò. Senza esserne del tutto convinta.
«Purtroppo no, stellina. Mi dispiace. Ho solo pochi minuti prima di rientrare in studio e continueremo per l’intero weekend. Ti ho chiamato appena ho potuto.»
«Uppert, mi mancano meno di cinquanta chilometri per essere da te. Come ti viene in mente di farmi uno scherzo del genere?»
«Ma non è uno scherzo, stellina. Abbiamo deciso di rivedere alcune cose in un paio di scene, con i ragazzi della troupe, e non possiamo proprio rimandare. Dobbiamo chiudere le registrazioni. Mi dispiace.»
«Ma come “non possiamo rimandare”? Ma che vuol dire, scusa? Io sto arrivando lì da te, sarò lì tra mezz’ora. Ho anche un regalo...»
«No, mi dispiace, non posso. Scusami, mi stanno chiamando, dobbiamo riprendere. Ciao stellina, a presto. Ti voglio bene, non dimenticarlo.»
Click.
Mortale.
Freddo come una tomba.
Una tomba pure l’abitacolo, ora che la bella voce d’argento del regista più figo che lei avesse mai conosciuto al mondo stava tacendo.
Mormorò: «Mancavano solo cinquanta chilometri, maledizione,» e gettò un’occhiata mesta allo smartphone fiaccamente appoggiato sul sedile fianco conducente, cercando di capire quale fosse l’uscita autostradale che le avrebbe permesso di invertire il senso di marcia e di rientrare delusa a casa. Ma in quel momento vide la goccina gialla del puntatore brillare proprio poco distante da dove si trovava lei, indicando caparbiamente la scritta “Lyssa”. Sembrava un dito indice puntato con insistenza proprio su quel nome.
Dominique trattenne per un brevissimo istante il respiro ma un’ondata di calore le si diffuse in tutto il corpo. Lyssa e la sua Provenza non erano lontane, non abbastanza lontane per permetterle di arrendersi al grigiore della sua vita.

Lyssa Salvaggio e il suo strano modo di farsi obbedire da ogni essere vivente nel buen ritiro della Provenza non distavano ormai di più di una ventina di chilometri.
Dominique tastò la borsa appoggiata sul sedile a fianco e introdusse la mano. Ne emerse con il flacone di Halcion e lo stappò abilmente con il solo pollice, badando che il coperchio ricadesse sul sedile. Lo accostò alla bocca e per qualche istante rimase così: un occhio alla strada e il flacone poggiato sulle labbra. Era rimasta solamente una pillola. Lanciò un’occhiata al tachimetro. Il motore strideva ai 90 all’ora, eppure non le sembrava di premere così tanto sull’acceleratore. Poi, da qualche parte nella sua mente ottenebrata affiorò il suggerimento di cambiare marcia. Diede ancora un colpetto al flacone e sentì scendere sulla lingua qualche granello di polvere. Le aveva finite. Non era giusto, caspita, anche questa ci mancava. Le aveva finite.
Afferrò la leva del cambio per mettere la quarta. La visione della strada non era nitida perché dei grossi lacrimoni le offuscavano la vista. “Dobbiamo terminare le riprese. Mi dispiace” le aveva detto lui e un grosso nodo tornò a salire dallo stomaco verso la gola. Si sentiva come una bambina a cui è caduto a terra il gelato. Abbassò il finestrino perché entrasse un po’ d’aria nell’abitacolo e si strofinò gli occhi con la mano, incurante del pasticcio di mascara che le imbrattava il viso. «Ci deve essere uno svincolo tra poco,» mormorò osservando le indicazioni. Avrebbe voluto ucciderlo. Non sopportava di essere respinta e ora un marasma di emozioni le rivoltava cuore, stomaco e cervello. Era così delusa. Anche se lei aveva gli occhi turchesi più belli del mondo e in più la voce più argentina che si fosse mai udita. Eppure non era bastato con Uppert e non bastava mai.
Che le aveva detto...? L’eco delle sue parole rimbombava nella sua testa, e solo lì, purtroppo: “Ti voglio bene, devo rientrare, stellina, non dimenticarlo” o qualcosa del genere. In qualche punto della loro storia nata e cresciuta esclusivamente in chat e su Skype, doveva anche averle detto “Io non sono come tutti gli altri”.
E lei naturalmente gli aveva creduto.
L’auto procedette la sua corsa sull’autostrada.
Mancavano pochi chilometri alla casa di Lyssa ma non aveva senso nemmeno quello, era evidente. Avrebbe dovuto tornare a casa. “Casa”? pensò. Un’assurda casa vuota, una relazione inesistente, un marito che non c’era e un amore finito ormai chissà dove, potevano definirsi “casa”?
Pigiò automaticamente sull’acceleratore quando, gettando un’occhiata distratta nello specchietto retrovisore, notò in distanza dietro di lei il lampeggiante di un’auto scura.
«E levami quei fanali e sorpassami, maledizione, non posso andare più veloce di così...»
Finalmente vide un cartello annunciare l’uscita che l’avrebbe condotta da Lyssa.
Come se non bastasse, d’improvviso lo smartphone cominciò a vibrare e a lampeggiare.
Lei si risollevò sbuffando. Chissà chi era, pensò, sperando fosse Uppert. Invece era Jacques.
Sorpresa, rispose.
Il “Ciao” freddo e metallico di suo marito risuonò all’altro capo della linea.
«Ciao... Ma dove sei...?» chiese lei.
«Devo parlarti,» sillabò lui.
Dominique si allarmò. Quel tono perentorio le fece pensare dapprima che lui avesse scoperto di Uppert. Ma subito dopo si rassicurò: in fondo lei era oggettivamente sola e sulla strada della casa di Lyssa e non aveva nulla da temere.
«Ho dietro un’auto che mi lampeggia... Se non c’è nulla di urgente possiamo sentirci più tardi? Anche perché sono in Provenza, adesso...» azzardò.
«Non ha importanza dove sei. No, non è il caso di rimandare, preferisco metterti subito al corrente. Ho appena incontrato il mio legale. Ho avviato la pratica di divorzio.»
Dominique rimase a fissare il nastro d’asfalto davanti a sé. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole non le uscirono. Dopo qualche secondo riuscì finalmente a ripetere:
«... Divorzio...?»
«Sì» rispose lui, secco. «È finita.» Poi riagganciò.
Lei rimase con la bocca aperta e lo sguardo fisso per un lungo paio di minuti, incapace di reagire. Incapace di muoversi, di spegnere il telefono, di pensare, di fare qualunque cosa. Da dove l’aveva chiamata? Le aveva davvero comunicato che intendeva divorziare? O si trattava di un incubo causato da quella misera pillola di Halcion?
Guardò stupidamente l’orario sul cruscotto e si accorse che cominciava a sentire un tremendo dolore al petto.
«Ovvio, – pensò, – sto per avere un infarto.»
Quanto ci avrebbe messo a ucciderla? Quanto ci avrebbe messo Jacques a venire a recuperare la sua salma in Provenza? Ma l’avrebbe fatta recuperare, poi? Del resto probabilmente, là con lui, adesso, c’era l’altra. Sentì di nuovo la morsa dell’ansia stringerle la bocca dello stomaco e ripensò all’Halcion: se ne doveva procurare una bella scorta. Le mancava l’aria, così si sporse verso il finestrino per respirare meglio.
«... Divorzio...» disse ancora tra sé come inebetita. Buttò la testa all’esterno e guardò in alto, verso il cielo scuro.
«... Divorzio...» ripeté di nuovo mentre nello specchietto laterale, dietro il riflesso dell’espressione da coniglio che le veniva quando piangeva, riconobbe l’avantreno di un’auto civetta.
Dominique si irrigidì e cominciò ad avvertire la nota pulsazione in cima alla testa, preludio di un’emicrania che le sarebbe durata almeno tre giorni.
Il lampeggiante si avvicinò di gran carriera. Era un’auto della Gendarmerie e Dominique si portò sulla destra per dare strada, nonostante al casello d’uscita mancassero poche centinaia di metri. Sentì una cosa leggerissima e tiepida sulla guancia destra e quando si sfiorò si accorse che si trattava di una lacrima. Con la mano fece segno di superarla all’auto che sopraggiungeva puntandole contro gli abbaglianti e che, in quel momento, l’affiancò.
Un colosso color cioccolato voltò verso di lei la testa quasi rasata a zero e ricambiò il gesto con un inequivocabile invito ad accostare.
«Ma che diavolo hanno le stelle stasera contro di me?» sbottò Dominique. Mise la freccia e si fermò nell’area di sosta prima del casello. L’auto bianca e blu si fermò esattamente davanti alla sua, e il colosso sgusciò dall’abitacolo con sorprendente agilità nonostante la mole: non portava l’uniforme, niente berretto e pistola d’ordinanza. Solo una camicia bordeaux sbottonata su un torace grande come un campo da golf.
«Puah... uomini,» mormorò tra sé Dominique. E si limitò a spegnere il motore. Rimase in attesa, fissando i propri alluci laccati di rosso che spuntavano vanitosi dagli Chanel. Se solo tutto questo fosse accaduto mezz’ora prima, lei avrebbe affrontato quello sceriffo in borghese con tutt’altro spirito. Ma adesso era troppo a terra. Così lasciò perdere gli alluci e la calza velata e abbassò il finestrino.
«Viaggio sola e non mi fido di nessuno. Nemmeno di lei. Perché non ha l’uniforme?» Lo aggredì.
Due occhi allungati da leopardo si soffermarono per un lungo istante nei suoi, poi il semidio sollevò le sopracciglia e sospirò. «Ha ragione, sono fuori servizio, anzi non sono nemmeno operativo in questo periodo... Mi sono permesso di fermarla solo per metterla in guardia,» disse con una voce tanto bassa e profonda da indurre Dominique a socchiudere gli occhi per osservarlo meglio. Doveva essere alto quasi due metri e aveva l’aria imbarazzata, mentre con un gesto del pollice indicava il retrotreno dell’auto. «Lei sta viaggiando con il serbatoio della benzina aperto... Nel senso di “senza tappo”.»
Cosa accidenti stava dicendo? pensò Dominique. E balbettò: «Beh, non sarà poi così grave, no...?»
«Potrebbe essere molto grave, invece signora. Deve aver fatto parecchia strada così.»
«Quell’idiota con il carro da morto!» disse con improvvisa lucidità Dominique, rivedendo nella mente l’immagine dell’uomo nello specchietto retrovisore. “Ecco cosa aveva fra le mani! Altro che sedotto... Maiale.” Lei ormai era davvero solamente come un iphone indietro di un paio di modelli. Destinato al cassetto degli oggetti dimenticati e inutili.
Il semidio dagli occhi di leopardo le si avvicinò e dovette notare il suo viso sconvolto:
«Va tutto bene, signora?» chiese, scrutando all’interno dell’abitacolo.
«Razza di idiota, tu e tutto il genere maschile! Ma come si fa ad essere così stupidi? È evidente che non c’è nulla che vada bene! Basta guardarmi!» urlò lei. Ma solo nella sua mente.